diretto da Stefano Angelucci Marino e Rossella Gesini
Via Abbazia,10 – Treglio
Forse non c’è molto da imparare dalla guerra se non che ne se ne esce sconfitti in ogni caso, in qualsiasi schieramento. Eppure, nelle lezioni di storia contemporanea a cui siamo abituati, la maggior parte del tempo è proprio dedicata alle due guerre mondiali. E’ così che si apre lo spettacolo “La lezione della guerra”, prodotto da “Scena Nuda” e andato in scena al Teatro Studio di Treglio il 2 Novembre. Si apre con una lectio magistralis sulla guerra.
Il relatore/professore che interviene ha il ritmo e le movenze tipiche degli insegnanti. Allo spettatore sembra quasi di essere tornato all’università o tra i banchi di scuola. Ma non sarà una delle consuete ore scolastiche che lo attende.
Lo spettacolo inizia in medias res, con le luci di sala ancora accese, senza intermezzi, senza artifici, senza musica di scena iniziale. Sul palco una semplice cattedra, rivestita di un panno verde, come spesso capita di trovare in una qualsiasi aula magna o sala convegni. Così parte la nostra lezione di storia sulla prima guerra mondiale: lo spettatore subisce quell’inizio di lezione confuso e imprevisto per l’interno di un teatro.
Ecco, però, che presto il nostro insegnante, Alfredo, interpretato da Filippo Gessi, deve interrompersi, non riuscendo a continuare: i pensieri si affastellano e il dolore si sfoga in rabbia. Qualsiasi dissertazione storiografica perde di senso di fronte a storie di vita vera, alle storie di chi la storia l’ha vissuta.
Così, improvvisamente, la cattedra si apre e diventa una trincea: la scenografia si divide in due, si squarcia per aprirci, letteralmente, uno “spaccato” reale sulla guerra. Ci troviamo ora ad osservare la guerra non in un’ottica evenemenziale, ma in una chiave personale: passiamo da “gli eserciti hanno fatto questo o quello” ai nomi dei singoli componenti di quegli eserciti, al loro viaggio per arrivare in trincea da tutte le parti di Italia, ognuno con i propri accenti, le proprie cadenze, le proprie movenze. Ci sembra di vederli uno ad uno tutti i combattenti di questo plotone, grazie alla caratterizzazione dei personaggi che ci regala Gessi, la cui recitazione è sempre misurata, cesellata mimeticamente sulla realtà. Lavora moltissimo con la voce, cambiando ritmi, cantilene e lessico per passare da una regione all’altra, facendo dimenticare allo spettatore che si tratta di un testo scritto per attore solo.
Alfredo ora non veste più i panni dell’insegnante e ci racconta la sua vita quotidiana di trincea: il freddo, l’ottusità e la lontananza degli ufficiali, i pericoli e le difficoltà. Al suo primo giorno, incontra Bianchi, un giovanissimo volontario che si arruola con il desiderio di trarre dalla guerra un’occasione di riscatto. Ha appena 17 anni, ma è davvero alto e anche un po’ più grassottello (e per questo più goffo e vulnerabile) degli altri soldati. Alfredo si sente in dovere di proteggere quell’impavido, quanto ingenuo ragazzo, ma questi, invece, si mette in cerca di qualsiasi occasione per conquistare una medaglia e rendere fiera la propria famiglia.
Più Alfredo tenta di sottrarlo dal pericolo, più Bianchi lo cerca. Alfredo si chiede se sia giusto togliere volontà al ragazzo, cercando di proteggerlo: sa cosa significa la guerra e ne ha già tratto la sua lezione, ma deve arrendersi di fronte ai desideri di Bianchi, proprio come un figlio che si vuole proteggere fino all’ultimo, ma che ad un certo punto va lasciato andare. Così, Alfredo concede a Bianchi un incarico speciale: consegnare gli ordini alle prime linee.
Viene così messo in scena un vero e proprio confronto generazionale: i ragazzi, irruenti e volenterosi, si sentono le ali tarpate dagli adulti, che vorrebbero preservarli e hanno dimenticato la fame di futuro e di avventura che albergava anche loro da giovani. Alfredo, rivolgendosi direttamente al pubblico, che torna per un attimo a sentirsi alunno adolescente, chiede “Perché è proprio quando vi accontentiamo, che vi facciamo del male?”
Così, inaspettatamente, cambia nuovamente la scena. La trincea si ripiega nuovamente su se stessa, si richiude a formare un parallelepipedo candido: è la bara del Bianchi. Con emozione, vediamo Alfredo posare la medaglia, tanto desiderata, sulla tomba dell’amico: come la scenografica si è ripiegata su se stessa, nell’intimità del dolore, così l’attore si inginocchia di fianco al feretro. I tre allestimenti scenici, la cattedra, la trincea, la bara, ideati brillantemente da Marco Perrella ci restituiscono visivamente una circolarità dell’esperienza della guerra del protagonista Alfredo: dal conoscerla sui libri, al viverla, al detestarla, per poi nuovamente insegnarla alle nuove generazioni. Questa tripartizione segue la partitura ritmica del testo di Francesca Sangalli, che vuole restituirci l’insensatezza della guerra, la dura lezione che ne consegue e la difficoltà che si prova a narrarla a chi non l’ha vissuta in prima persona. Uno spettacolo che è insieme lezione, ma anche narrazione biografica e infine diventa elegia.
Domiziana Cuonzo
L’adattamento de “Il Guardiano” in scena il 5-6 Ottobre 2024 a Treglio
Il teatro dell’assurdo oggi
Di certo, assistere a uno spettacolo del teatro dell’assurdo di seconda generazione, come per le opere di Pinter, può a volte lasciare lo spettatore un po’ spiazzato, o quantomeno con dei punti interrogativi. Eppure, possiamo assicurarvi che il Pinter della regia di Galano e Angelucci Marino, è tutt’altro che noioso.
“Il Guardiano” di Harold Pinter è la prima opera dell’autore londinese ad aver avuto successo di pubblico, nel 1960, e non a caso: il testo, infatti, tocca alcuni tasti universali. In primis, i tre protagonisti, immagine di altrettanti tipi umani (resi saggiamente in questo adattamento dai costumi di Vize Ruffo): Aston, un ragazzo ingenuo e problematico, suo fratello minore Mick, giovane spregiudicato e in cerca di guadagni, e Davies, un barbone di mezza età, pigro e incontentabile.
I personaggi
Aston salva Davies nel bel mezzo di una rissa e gli offre alloggio a casa propria, lasciandogli addirittura le chiavi di casa quando è fuori per una commissione. Sarà proprio in quel momento, quando Davies è intento a rovistare tra gli oggetti di una casa non sua, che rientra Mick, accusandolo di essere un ladro o un abusivo. E’ così che inizia la vicenda. I tre si accorgeranno presto di avere qualcosa in comune: tutti loro sono dei falliti, incapaci di realizzare le proprie ambizioni, siano esse costruire un capanno in giardino, come per Aston, andare a cercare i propri documenti per Davies o trasformare la propria topaia in un attico fonte di guadagno, per Mick.
E’ appunto in questo buco, vecchio e scuro, che prende luogo tutta la vicenda: nella produzione del Teatro Stabile d’Abruzzo, con la collaborazione del Teatro Studio e del Teatro dei Limoni, l’abitazione, vecchia e cadente dei fratelli Aston e Mick, diventa quasi una gabbia, fatta di reti per materassi sgangherate e vecchi bancali. Questa scelta, dello scenografo Cristiano Russo, restituisce l’immobilismo dei personaggi pinteriani, che non riescono a sganciarsi dalla loro situazione di stallo e a raggiungere i loro obiettivi. La casa, chiamata “pollaio” dal barbone e “attico” dai suoi proprietari, è come un ring in cui i tre si affannano a combattere, in uno scontro però irreale, come se non ci fosse il reale oggetto della contesa. Risiede proprio in questo l’archetipo della conflittualità pinteriana: c’è ma è senza fondamenti, cade nell’assurdo.
Gli spazi serrati sono anche immagine delle menti chiuse dell’umanità messa in scena: i tre basano la conoscenza e le azioni sulle loro idee preconcette, su stereotipi, razzisti e non. I personaggi sono terrorizzati dal diverso, da ciò che non gli è noto. Per questo il loro processo di conoscenza si sviluppa per categorie prestabilite, con pregiudizi quasi impossibili da scardinare. Ritorna in questo la sottile critica, politica e umana di Pinter: i personaggi sono chiusi e si illudono di imporre il proprio pensiero sugli altri, senza una reale possibilità di comunicazione tra le parti.
Questo senso opprimente di chiusura e di mancanza di vie di fuga è una cifra stilistica di Pinter: non sorprende, infatti, che nella motivazione della sua vincita del premio Nobel 2005 per la letteratura si legga: "nelle sue commedie scopre il baratro che sta sotto le chiacchiere di tutti i giorni e spinge ad entrare nelle stanze chiuse dell'oppressione".
La creatività linguistica
Cosa rende questo adattamento contemporaneo e insieme fedele al testo originale? La lingua: i personaggi vengono connotati geograficamente dal punto di vista linguistico e questo restituisce loro una grande forza comica ed espressiva. L’italiano con cadenza slava di Davies, il parlare cadenzato e cantilenato di Aston e il bipolarismo abruzzese-milanese di Mick non rispondono soltanto a esigenze sceniche, ma anche e soprattutto a esigenze di traduzione. Pinter crede moltissimo nell’uso della parola e su di essa lavora con precisione, partendo dal parlare quotidiano e cesellando poi ogni particolare: le sue pause, le sue esitazioni e le ripetizioni. E persino queste ultime, le famose e lunghissime ripetizioni pinteriane, diventano, grazie alla gestione dei tempi comici da parte degli interpreti, Angelucci e Galano, motivo comico, pur nella tragicità della trama.
I due fratelli propongono, in momenti separati, al clochard se vuole lavorare presso di loro come “Guardiano”, ma Davies sembra non essere incline al lavoro, chiedendo che vengano puntualizzati mansioni e titoli e continuando a lamentarsi degli spifferi, delle perdite d’acqua dal soffitto, delle nuove scarpe ecc. I due fratelli, dal canto loro, non sopportano la puzza di Davies e il suo strano modo di mugugnare durante il sonno. Banali zuffe da coinquilini, ma che si trasformano in paradigmi di mancanza di umanità ed empatia.
Il finale
Ma in cosa consiste la genialità di questa regia, coadiuvata anche dal contributo di Maggie Salice? L’intuizione di scrutare anche le didascalie di Pinter e non solo le parole dei dialoghi. I due fratelli non compaiono quasi mai in contemporanea in scena nel testo: è da qui che nasce il pretesto per infiniti giochi di scambio e, al di sopra di tutto, una complessità psicologica del personaggio che si fa duale e poi ancora plurale, per apparire, infine e inaspettatamente, come singolare. La battuta finale strappa un sorriso e semina l’amaro. In definitiva, c’è davvero poco spazio per la noia in questo Pinter.